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Mostra

Italo Zannier - Ansia d'immagini

mostra di fotografia

17 Aprile 2010 - 29 Giugno 2010
Museo Nazionale Alinari della Fotografia
Piazza Santa Maria Novella, 14 - Firenze
orario: 10-19 tutti i giorni, chiuso mercoledì
info: 055 216310 - mnaf@alinari.it
www.mnaf.it
ingresso: 9€ (intero), 7.50€ (ridotto) 

tags: alinari, ansia, firenze, zannier

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Una importante monografia dal titolo “Ansia di Immagini” presenta oggi al MNAF il lavoro di fotografo svolto da Italo Zannier, figura di intellettuale preminente nel mondo della Fotografia anche per la sua lunga attività di studioso e critico, accompagnata da un’ampia pubblicistica che lo vede autore di più di cinquecento saggi e articoli e di oltre centotrenta tra volumi e fotolibri. Dal 1952 al 1976 è stato infatti tra i più attivi e considerati fotografi dell’Italia del dopoguerra, con riconoscimenti anche internazionali.

L’esposizione illustra l’attività di questi anni soprattutto come memoria di un periodo storico della fotografia italiana caratterizzato dal Neorealismo, del quale Zannier è stato un protagonista, fondando il Gruppo Friulano e scrivendo un “Manifesto” programmatico dello stesso neorealismo fotografico.

Testimone più attento e attivo nella lettura dei modelli culturali del suo Friuli, Zannier si è impegnato per vent’anni in un profondo lavoro di documentazione che si è spinto, con risultati sorprendenti nella pura ricerca estetica dell’immagine condotta con umana e intensa partecipazione. La stessa sensibilità è riconoscibile anche nel percorso professionale al fianco di artisti e architetti come appare evidente dal nutrito numero di pubblicazioni che rendono pieno merito al suo lavoro di ricerca.

Una selezione di immagini tratta dagli oltre 47.000 scatti in b/n e a colori che costituiscono l’archivio completo dell’attività fotografica svolta dall’autore e oggi conservato nelle Raccolte Museali della Fratelli Alinari insieme alla sua collezione di circa 5.000 stampe fotografiche originali d’epoca, che spaziano dall’800, con un fondamentale nucleo dedicato a Sommer, alla presenza di opere di molti tra i più prestigiosi autori italiani e stranieri, maestri della storia della fotografia del Novecento e contemporanea.

mostra


Il percorso è articolato in tre sezioni specifiche, gli anni del Neorealismo, l’attività professionale come fotografo d’architettura e l’acquisizione del senso di paesaggio e più precisamente:
- l’esordio neorealista in Friuli (1952-1960), con particolare riferimento all’architettura spontanea (poi scomparsa con il terremoto del 1976) e all’ambiente sociologico;
- l’attività professionale nei settori dell’Architettura, in particolare come collaboratore di Bruno Zevi, e nell’Industria, in qualità di fotografo di varie grandi aziende come Rex, Alfa Romeo, mobilifici veneti, e, infine, la documentazione di alcune storiche Triennali milanesi o dell’Expo a Torino di “Italia ‘61”;
- l’inedita perlustrazione fotografica dell’opera viennese di Adolf Loos, ancora intatta negli anni Cinquanta;
- un’antologia d’immagini correlate ai maggiori architetti e designer italiani del ‘900 come Giancarlo De Carlo, Marcello D’Olivo, Marco Zanuso, Gino Valle;
- una scelta iconografica della grande opera illustrata da Zannier sull’Italia e a cura di Italo Insolera e Enrico Ascione, tra il 1967 e il 1976, che ha portato alla realizzazione di nove volumi editi dall’ENI, sulle Coste e i Monti, oggi ancora la più ampia ed esaustiva enciclopedia del paesaggio italiano, con le prime rigorose annotazioni e considerazioni ecologiche e territoriali.

Curata da Angelo Maggi, la mostra è accompagnata da un catalogo edito dalla Fondazione Alinari con testi di Italo Insolera, Angelo Maggi e Italo Zannier.

In contemporanea a Venezia presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, sede di S.Marco, è in corso una grande retrospettiva sulla fotografia italiana: Il furore delle immagini, fotografia italiana dall’archivio di Italo Zannier nella collezione di Fondazione Venezia fino al 18 luglio 2010 . Curata da Denis Curti, racconta la storia della fotografia italiana dagli esordi fino alle tendenze contemporanee, 260 immagini, per lo più sconosciute al pubblico, corredate da una serie di libri e album fotografici .
Questa mostra è un esempio di valorizzazione dell’importante fondo librario e dell’archivio fotografico di Italo Zannier, che Fondazione di Venezia ha acquisito a fine 2007, per conservarlo, catalogarlo e renderlo fruibile a studenti e studiosi della materia.
Per informazioni: valeria.regazzoni@gmail.com 348 3902070


ANSIA D’IMMAGINI
Italo Zannier fotografo 1952-1976

BIOGRAFIA
Fotografo e storico della fotografia italiano (n. Spilimbergo 1932). Dopo aver intrapreso studi di architettura e di pittura , si è dedicato alla fotografia (dal 1952) e alla storia della fotografia (dal 1954). Tra i fondatori del Gruppo friulano per una Nuova Fotografia (1955), interessato a ricerche sociologiche e ambientali, ha lavorato dapprima in Friuli (1952-65) e successivamente su tutto il territorio nazionale, dedicandosi in particolare alle coste e ai monti (1967-76). Impegnato nell’insegnamento universitario dal 1971, ha collaborato con diverse riviste (“L’architettura. Cronache e storia”; “Camera”; “Photo Magazine”; “Popular photography”); cura inoltre “Fotologia. Studi di storia della fotografia” e “Fotostorica. Gli archivi della fotografia”. Insignito di varie onorificenze, è membro, tra l’altro, della Société européenne d’histoire de la photographie; ha collaborato a diverse esposizioni internazionali (La fotografia, in Paesaggio mediterraneo, Siviglia, Expo, 1992; sezione di fotografia in The Italian metamorphosis, New York, Guggenheim Museum, 1994, e Wolfsburg, Kunstmuseum, 1995; L’io e il suo doppio. Cent’anni di ritratto fotografico in Italia, Venezia, Biennale, 1995) e pubblicato numerosi saggi di storia e tecnica della fotografia, tra i quali ricordiamo: Breve storia della fotografia (1961); Settanta anni di fotografia in Italia (1978); Storia e tecnica della fotografia (1982); Storia della fotografia italiana (1986); L’occhio della fotografia (1988); Architettura e fotografia (1991); Leggere la fotografia (1993): Le grand tour (1997); Il sogno della fotografia (2006); Alle origini della fotografia scientifica (2008); Storia e tecnica della fotografia (nuova ed. 2009).


AMARCORD “QUAND J’ETAIS PHOTOGRAPHE”
Quando mi iscrissi alla Facoltà di Architettura a Venezia, nel 1952, rimasi subito affascinato dalla personalità di Bruno Zevi, che insegnava Storia dell’Architettura e parlava anche di cinema e fotografia.

Il cinematografo era allora tra i miei hobby e ero riuscito ad acquistare, con la paghetta di mio padre, una “Reliant Kodak” 8 mm, una piccola cinepresa, che mi offriva però l’illusione del “grande cinema”, mentre studiavo nelle indimenticabili edizioni Einaudi, composte da saggi storici fondamentali, dei Sadoul, Eisentstein, Balasz, Chaplin…

Per l’esame di Storia dell’Architettura scelsi come tema, assieme al fraterno amico Lulli, il Palazzo Ducale di Urbino, e lì realizzai anche il mio primo “corto, cortissimo” film, che presentato all’esame di Zevi, ottenne un bel Trenta e lode.

Continuai con il cinema, addirittura sceneggiando un corto neorealista, che iniziai a girare a Spilimbergo, allora il mio paese, con attori della filodrammatica locale, tra i quali l’attore Attilio Pastorutti. Una domenica mattina, nei pressi delle “periferiche case popolari”, girai la prima parte del film 8 mm, pellicola che andava poi “girata” in camera oscura.

Portai l’apparecchio nello studio di Gianni Borghesan, perché effettuasse l’operazione.

Uscì dal laboratorio quasi sconvolto e mi disse: “non hai ripreso niente, perché la pellicola si è rotta, strappata alla partenza…”. L’avevo agganciata male.

Decisi in quel momento di grande delusione di smettere con il cinema, e offrii subito la Reliant a Gianni in cambio di un apparecchio fotografico. Mi diede una “Semflex 6x6”, modello povero a imitazione della fantastica Rolleiflex, che conservo e uso magnificamente tuttora, dopo quasi sessant’anni. Così divenni fotografo!

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Lo scrittore Elio Bartolini mi aveva consegnato una bella lettera di presentazione per alcuni suoi amici di Milano, definendomi “ottimo fotografo e buon disegnatore…”, in quel settembre del 1955, durante un incontro a Codroipo, dove abitava e scriveva.

Il fotografo-disegnatore ero proprio io, all’inizio di una “carriera”, che allora mi sembrava promettente, oltre che suggestiva d’avventure (un po’ meno convinto era mio padre!); gli amici di Elio erano Dino Buzzati, Enzo Bettiza, Fernanda Pivano, Guido Lopez…

Un’emozione l’incontro con Buzzati, in via Solferino al “Corriere”, dove, con una indimenticabile pazienza e attenzione, guardò, una a una, le mie fotografie, che avevo raccolto in una cartella, non ancora definita book. Quando lo ringraziai nell’andarmene, mi disse: “sono io ringraziarla, per avermi mostrato queste fotografie…”. Una frase indimenticabile!

Quindi telefonò ad amici per fissarmi altri “incontri”, per le mie speranze di un eventuale lavoro fotografico a Milano: Camilla Cederna, Emilio Radium, in primis, in piazza Carlo Erba, alla Rizzoli.

Mi indicò dalla finestra del suo studio il crocicchio dove passava il Tramvai che avrei dovuto prendere per raggiungere la piazza, e disegnò con alcuni pennarelli a colori il percorso, per agevolare quel giovanotto provinciale che ero io e che lo si vedeva da lontano.

Ho perso quel magnifico, generoso autografo, forse infilato tra le pagine di qualche libro, o finito in una tasca ripulita in lavanderia.

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Inizia a fotografare nel 1952, nel clima ancora ruggente del neorealismo in Friuli, dove operavano, contestati, i magistrali Zigaina, Bartolini, Pasolini.

Il neorealismo era una tendenza, anche politica, che stentava quindi a imporsi nel provincialismo folkloristico friulano, pseudocattolico e costantemente afflitto da una reazionaria posizione difensiva culturale.

Nel 1955, comunque, fondai il Gruppo friulano per una Nuova Fotografia, con alcuni miei amici fotografi emergenti, tra i quali Fulvio Roiter. Per il rosso catalogo (una striscia di cartone, con applicate, per risparmiare il costo dei cliché, sette vere fotografie) scrissi un breve testo, in effetti l’unico “manifesto” d’epoca, per un’ipotesi neorealista della fotografia, in contrasto netto con il “formalismo” del Gruppo Bussola e con gli epigoni del pittorialismo nostrano fin de siécle.

Nel frattempo pubblicavo “elzeviri” visivi su “Il Mondo” di Pannunzio, “Il Contemporaneo” di Salinari, “Comunità” di Zorzi-Olivetti, “Il Caffè” di Vicari; immagini a volte presentate in modo anonimo, quando ancora non “usava” segnalarne l’autore.

Tre anni dopo mi sentivo maturo per un fotolibro, secondo un’ambizione che i fotografi hanno tuttora (Berengo Gardin è arrivato, mi pare, a quasi duecento fotolibri, un record da Guinness).

Tentai un fotolibro sul Friuli e con spudoratezza portai a Milano il mio lavoro friulano: vecchie case, ruderi di mura e di persone, lavandaie al fiume tra la neve, le ultime del vecchio mondo contadino in trasformazione rapida.

Lorenzo Camusso, direttore dell’avanguardistica collana di fotolibri (“solo immagini e poco, pochissimo testo”, diceva Patellani) dell’Editrice LEA, mi ricevette, vide le fotografie e, con mia sorpresa e felicità, disse: “facciamo il libro sul Friuli. Chi vuole che scriva l’introduzione?”. Pierpaolo Pasolini, dissi, ma lui scosse la testa e allora, più timidamente, suggerii Bartolini o Maldini. Camusso scelse Elio Bartolini ed io fui ulteriormente felice.

Il libro uscì un paio d’anni dopo; un bel volume, il primo fotolibro sul Friuli, anche in edizione tedesca, ma a certi vecchi notabili di Udine diede fastidio, perché non erano intervenuti nella scelta delle immagini, nella censura delle didascalie, ecc., com’era loro costume. (“Al posto della conoscenza la presunzione!”, tuonò il solito critico “mafioso” del giornale locale).

Qualche anno dopo quelle fotografie, purtroppo, sembrarono, piuttosto che immagini di denuncia sociale, un documento romantico dell’Era contadina, qualcosa di dialettale, e addirittura mi premiarono con l’“Alare d’Oro”, il massimo premio dell’Ente per il Turismo locale.

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Tra le mie ambizioni, c’era un fotolibro sul Friuli da realizzare in coppia con Pierpaolo Pasolini, al quale inviai una serie di fotografie di interni e personaggi.

Mi rispose lapidario: “Mi è rimasta dentro un’immagine fossile del Friuli, che non intendo rispolverare”, stop.

Ho “perso” la lettera, che probabilmente allora sistemai in qualche cassetto particolare o tra le pagine di un libro; il trasloco successivo al terremoto del 1976 ha fatto il resto, ossia ulteriore confusione tra le mie carte. Ma sono ottimista, prima o dopo qualcuno ritroverà quella missiva.

In quella lettera Pasolini mi consigliò di rivolgermi a Giacinto Spagnoletti, mitico critico letterario di quel tempo, che mi rispose interessato, ma io abbandonai il progetto.

Credo che una delle mie fotografie, “Donna carnica”, una figura ripresa da dietro con uno scialle nero spruzzato di fiocchi di neve, una forma drammatica su uno sfondo bianco, sia rimasta impressa in Pasolini, perché mi pare di ritrovarla similmente nella scena della crocifissione, dove la Madre si rivolge a Cristo in croce, nel capolavoro del “Vangelo secondo Matteo”.

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Per circa dieci anni (1967-1976) ho percorso l’Italia, da Nord a Sud, da Est a Ovest, lungo le coste, e attraversando i monti, con un fedele “maggiolino” Volfswagen, che non mi ha mai tradito, neppure quando partendo da Palermo giungevo d’“un fiato” a Pordenone, anzi più in su fino a Spilimbergo, che allora era il mio provvisorio, e accogliente paese.

Cinque volumi sulle Coste d’Italia e quattro sui Monti, gli Appennini, furono il risultato di un megaprogetto ideato da Italo Insolera ed Errico Ascione per l’ENI; venni scelto per la fotografia, e fui affiancato da un comitato scientifico composto dai maggiori specialisti delle varie discipline dell’urbanistica: geografia, geologia, botanica, archeologia, tradizioni popolari, ecologia, ecc., che difficilmente si trovano, anche oggi tutti assieme, in una Università.

Nove grandi libri, che sono un documento visivo e didascalico sull’Italia tra il 1967 e il 1976, ricco di migliaia di fotografie, tutte rigorosamente annotate cartograficamente, una per una, nel loro “punto di vista”, il che consente in qualsiasi momento di rifare il viaggio e rappresentarlo diacronicamente.

Inizia, sul finire del 1967, dalla foce del Fortore, il fiume torrentizio che delimita a Nord il Gargano; non c’erano strade lungo la costa e raggiungere i luoghi richiedeva persino coraggio, specialmente se il sole d’agosto ti toglieva il respiro, come in quell’anno, comunque meraviglioso, splendido, per l’avvio di un’avventura ormai storica.

Attraversando i prati e improbabili sentieri, arrivai alla foce, dove un giovane con la bandana e un carico di legna sulle spalle, fu il mio primo soggetto, su uno sfondo d’acqua del torrentello verso il mare, la “costa” che cercavo, e una barca nera a fondo piatto, come quelle veneziane.

Una metafora, che io ricordo come una copertina emblematica di un viaggio fotografico che durò dieci anni.

Rimangono fortunatamente i libri, e molte immagini conservate all’Alinari, che raccontano in modo eloquente un brano di storia del nostro paesaggio, e non solo…


Italo Zannier fotografo. La Contemplazione in Divenire.
Testo del curatore Angelo Maggi

Quando nel 2006, a Venezia, un gruppo di amici e allievi si strinse attorno a Italo Zannier per celebrarne il ritirement dall’insegnamento con una pubblicazione che ne testimoniasse la personalità e l’opera di storico, forse più d’uno rimase colpito dall’acume delle parole apparse nel tributo di Peter Galassi. Oltre a menzionare “la singolare attenzione e la smisurata energia del Professor Zannier” , il curatore del Dipartimento di Fotografia del MOMA di New York rievocò quanto “Italo Zannier avesse continuamente chiesto all’Italia di porre la dovuta attenzione alla fotografia e di quanto fosse necessario riconoscere il suo ruolo nel divulgare all’estero l’importanza della fotografia italiana”. E’ un fatto ormai acquisito che il mondo della fotografia ha in Zannier uno dei suoi maggiori rappresentanti; insieme a pochi altri egli è tra i nomi che più spesso ricorrono nei volumi dedicati alla storia della fotografia italiana. Eppure la sua lezione di fotografo che inizia negli anni cinquanta e che si protrae fino al maggio del 1976, è stata semplificata, equivocata e più volte dimenticata. Come per Helmut Gernsheim anche per Zannier il mestiere di storico è successivo a quello di fotografo. Entrambi, riconosciuti come studiosi di chiara fama internazionale, prima di analizzare nello specifico il linguaggio comunicativo della fotografia sperimentano il mezzo fotografico con la consapevolezza di essere artisti.

“Italo Zannier crede forse un po’ troppo, al pari di certi giovani milanesi, al messaggio della realtà: spirito sensibile, si trova dialetticamente davanti a un contrasto tra cultura vecchia e cultura nuova, e non sa ancora decidersi a impegnarsi in un esame nuovo della storia: è un fotografo, per il resto, di non comuni possibilità” Queste parole, scritte nel 1959 dall’amico e studioso Giuseppe Turroni, esprimono chiaramente lo spirito di ansia e di profonda curiosità del giovane fotografo friuliano di fronte a quel respiro neorealista che caratterizza le sue prime immagini. Turroni lascia un margine di sospensione nella risposta che Zannier dà come fotografo, ma in un intervento del 1976 l’autore sottolinea la sua singolare capacità professionale: “Egli si interessa di fotografia da sempre, perché il mondo dell’immagine è per lui un fatto sia naturale e fisico che intellettuale insieme: [la fotografia] sta a lui come gli elementi – aria, acqua, fuoco, terra – stanno fra loro” .

Zannier prima di incontrare la fotografia sperimenta la pittura, la letteratura e anche il mondo del “cinema didattico”. In una confessione apparsa nel volume Neorealismo e fotografia si scopre che nel 1952 utilizza una cinepresa otto millimetri (una Relian-Kodak) per illustrare una tesina di storia dell’architettura per Bruno Zevi sul Palazzo Ducale di Urbino . Le simulazioni prospettiche dello studiolo di Federico da Montefeltro, la magnificenza e il rigore degli spazi rinascimentali del Palazzo urbinate, rappresentano un’ottima scuola per lo sguardo e per la ricerca nella composizione di linee e di forme: una lettura colta e raffinata che ritroveremo nelle immagini d’architettura alcuni anni più tardi .

La prima macchina fotografica adottata da Zannier sarà una Semflex 6x6. Tra le prime immagini un dettaglio “rugoso” di un cancello di legno dal taglio audace e anticonvenzionale. Egli osserva il paesaggio friulano dove la geometria delle casette arroccate e viste da lontano si trasforma in un paesaggio esotico, come in un quadro di Cezanne. Conquista rapidamente un’eccezionale abilità tecnica. “Fu una fortuna per me – scrive Zannier - che la Semflex fosse così modesta, perché mi costrinse a trasgredire, ad accettare l’immagine un po’ sfuocata, o mossa, o male esposta, spesso troppo contrastata; furono questi gli errori che mi stimolarono, e che piacquero a Zevi, che finalmente poteva utilizzare qualche fotografia meno rigida e fredda delle tradizionali Alinari, tutte in peccato di professionismo” . Il crescente apprezzamento per una nuova realtà dell’immagine, stimolata dal cinema e dalla letteratura neorealista, coinvolge il giovane Zannier in un grande affresco del Friuli secondo l’ideologia della rappresentazione visiva del “Gruppo friulano per una nuova fotografia”.

Questo gruppo, fondato a Spilimbergo nel dicembre del 1955, e che vede Zannier tra i principali promotori insieme a Beltrame, a Bevilaqua, ai Borghesan, a Del Tin e a Roiter, “vuole agire attraverso una fotografia che sia documentazione poetica dell’umanità che gli vive attorno” . Il segno di rinnovamento del gruppo è l’abbandono della retorica del realismo. “Un’istanza precisa di noi neorealisti – spiega Zannier – è stata quella di porci in modo civile nei confronti del soggetto” . Secondo un’esigenza ideologica, il fotografo non tradiva la persona che fotografava, non speculava sulla povertà e sulla miseria. Egli era conscio di essere parte dell’immagine. Il soggetto non veniva ingannato, doveva essere consapevole di diventare protagonista di una realtà sociale. Si trattava di una nuova fotografia che si allontanava dall’immagine documentaria di denuncia, anche se aspramente definita da Paolo Monti “sbracata retorica della miseria” del neorealismo italiano .

Ciò che maggiormente colpisce nel “mondo fotografico di Italo Zannier” – evocando il titolo di un articolo di Giovanna Zangrandi apparso in Ferrania nel 1957 – è l’effetto complessivo di accostamento o di sequenza. Come nell’articolazione di un racconto, la scena si sottrae alla fissità iconica: l’immagine non costituisce un atto compiuto, ma una produzione di senso in movimento. E’ nella sintassi associativa e diacronica delle immagini che il valore del singolo elemento trae la sua forza. Quella che Zannier molto spesso coglie è una realtà mobile, quasi come in una progressione di fotogrammi impressa su di una pellicola cinematografica.

Robert Brentano, professore all’Università Berckley di storia medievale, rileggendo le parole di Paolo Costantini apparse in L’insistenza dello sguardo (1989), commenta quanto la fotografia abbia “il potere di suggerire altre indicibili realtà celate sotto una minuziosa descrizione superficiale” . Per Brentano la “minuziosa descrizione” fotografica di Zannier è anche un potente strumento per l’osservazione dei cambiamenti, soprattutto in relazione al mutamento veloce dei valori sociali. Il fotografo, attraverso due immagini distinte e realizzate con uno scarto di quattordici anni, “presenta la stessa donna, nella stessa posa, all’interno della stessa stanza, nella stessa casa di villaggio friulano, a Claut, giovane e anziana, accostata ad un arredamento trasformato e riarrangiato” . Zannier orienta ancora oggi le sue ricerche verso un’immagine in divenire, una cronaca storica di ritratti, architetture e paesaggi in continua trasformazione.

L’interesse di Zannier per la sequenza visiva è evidente anche nei suoi primi fotolibri. Tra questi si ricordano: Friuli (1963) con testi di Elio Bartolini; Immagini e poesie (1966) con composizioni poetiche di Pieraldo Marasi; Il quartiere barocco di Roma (1967) con scritti di Italo Insolera; Una casa è una casa (1971) e Spacal in Kras (1974). Il volume Friuli, impaginato in maniera esemplare dal graphic designer svizzero Max Huber, raccoglie più di un centinaio di fotografie di varia grandezza e un breve testo introduttivo. Il libro è parte di una collana dal titolo “Italia nostra” proposta dalla LEA (L’Editrice dell’Automobile) dove il direttore editoriale, Lorenzo Camusso, affida al fotografo-autore la scelta definitiva delle immagini. Il testo viene richiesto allo scrittore friulano Bartolini, soltanto dopo l’impaginazione, isolando il saggio all’inizio del fotolibro, come una lunga didascalia, ma del tutto indipendente dal resto. Le didascalie di Bartolini alle immagini sono precise, brevi, ma hanno un’eco e una risonanza che vanno al di là della semplice informazione: alle volte basta una parola, un riferimento, per tracciare tutto un arco di riflessioni. Secondo Aldo Feruglio si tratta di una pubblicazione di alto livello editoriale nel quale Bartolini è riuscito a rimanere distaccato di fronte alle fotografie. “Era facile cadere nella retorica, – scrive Feruglio – nel luogo comune, nel populismo … Bartolini ne parla con quella sorta di schivo pudore con cui un friulano parla di se stesso” . Tra le immagini più significative viene indicata: “Una camera da letto con le pareti bianche di calce, il pavimento pulitissimo che sembra odorare di varechina, una stampa appesa al muro e sul cassettone la fotografia di un ufficiale. C’è nella linearità di questo quadro l’espressione più tipica del Friuli: la pulizia, l’ordine domestico (un ordine fatto di povere cose tenute con amore e in dolore raccolto e schivo per il familiare scomparso. Una sintesi che più felice non poteva essere” . Feruglio conclude la recensione spiegando come Zannier non volesse con questo lavoro dare un’immagine turistica del Friuli. “Chiudendo il libro, il lettore ha negli occhi la visione di una terra aspra e dolce assieme, di una terra nuova, e di una gente povera ma non avvilita e non rassegnata. Centoquaranta immagini che dicono più di migliaia di parole” .

Un discorso a parte merita il catalogo della mostra Immagini e Poesie: il fotolibro che Italo Zannier e Pieraldo Marasi hanno voluto realizzare percorrendo la campagna friulana nel 1965. L’incontro con il poeta emiliano è determinante, a tal punto che il lavoro fotografico di Zannier trova una nuova dinamica espressiva. In Immagini e Poesie viene messa a punto la comunicazione perseguita con due strumenti diversi: la macchina fotografica e il verso. Il tentativo è di rompere gli schemi di una monotona e costante lettura, mettendo in evidenza le necessità ritmiche e dinamiche di questi due strumenti di conoscenza della realtà. Ricorda lo storico dell’arte Mario De Micheli: “La parola di Marasi, così trepidante e al tempo stesso così concisa e carica di significato morale, vive nel tagliente bianco e nero di Zannier senza disagio alcuno: il medium che consente un simile sicuro incontro è, appunto, l’area di verità umana dentro cui tutt’e due si muovono, ognuno coi mezzi che gli sono propri” .

Un altro aspetto rilevante nello sviluppo della produzione fotografica di Zannier è riscontrabile nel volume Il quartiere barocco di Roma. In questo progetto editoriale, basato prevalentemente sull’uso della street photography, osserviamo il fotografo alle prese con uno stile vicino alle libertà dell’arte contemporanea, mediante segni accentuati e soggettivi che ricordano il reportage romano di William Klein, cogliendo insieme valori documentari, metaforici e poetici.

Nei due volumi Una casa è una casa e Spacal in Kras, Zannier documenta con grande senso critico il tema del paesaggio e dell’architettura. Un aspetto comune delle formule editoriali di questi libri è l’importanza attribuita all’immagine fotografica che assume un valore persuasivo e dimostrativo. Nel primo fotolibro la scelta della sequenza delle illustrazioni e la composizione grafica della pagina sono gestite personalmente dall’autore. Egli adotta un progetto grafico innovativo: formato pressoché quadrato, le due pagine concepite come unico campo compositivo orizzontale, gabbia fissa ma sempre interpretata liberamente, immagini che talora attraversano le due pagine e costante ricerca di rapporti tonali fra bianchi e neri. Le case rurali friulane inserite nel paesaggio, la poetica della forma delle nude pareti in pietra, l’intimità degli spazi interni in vedute quasi rubate, appaiono tutte riunite in sequenza filmica. Nel secondo volume, invece, la scena mobile è prodotta attraverso una griglia d’immagini in continua mutazione che coinvolge il lettore in un gioco di reciproca compensazione tra fotografie in bianco e nero di case carsiche e illustrazioni a colori di opere pittoriche di Luigi Spacal.

L’attenzione nei confronti delle molteplici relazioni tra fotografia e architettura è forse uno degli aspetti più interessanti della carriera di Zannier. Negli anni Sessanta, Zevi lo considera “uno dei rari fotografi impegnati nella critica architettonica” , e segue la sua attività con estremo interesse. “Una sua fotografia critica – sottolinea lo storico – può risparmiarci una pagina, o un’ora di lezione, cogliendo l’immagine attuale, pertinente, segreta di un’opera di architettura” .

Con lo studio spilimberghese denominato Diaphragma, Zannier si inserisce con entusiasmo nel mondo degli architetti Giancarlo De Carlo, Marcello D’Olivo, Gino Valle, Carlo Scarpa, Gianni Avon, Marco Zanuso, e collabora con diverse riviste specializzate come Abitare, Casabella, L’Architettura cronache e storia e per quest’ultima pubblica un illuminato saggio dal titolo “Sulla fotografia architettonica” . Gli stessi anni è docente di fotografia presso il Corso superiore di Design industriale a Venezia, dove documenta, in immagini di rara bellezza, le attività della scuola.

L’inedita perlustrazione fotografica dell’opera viennese di Adolf Loos, ancora intatta negli anni Cinquanta, rappresenta per Zannier l’opportunità di verificare il proprio acume visivo sulla base di una profonda cognizione estetica e storica dell’architettura. “La critica di architettura, – egli spiega – da Winkelmann a Giedion, avrebbe dovuto dettare una grammatica e una sintassi dell’interpretazione visiva, che si sviluppasse contemporaneamente alle nuove formulazioni estetiche, collaborando anzi all’approfondimento, anche scientifico, dei problemi che vanno, con i tempi, presentandosi in forma nuova” . Le immagini dell’architettura di Loos mostrano chiaramente quale sia il nuovo modo di operare di Zannier: una lettura fortemente simbolica, ai limiti del misticismo, dove l’azione spazio-tempo viene espressa in successive sintesi interpretative. La campagna fotografica è dedicata ai pochi ma significativi incarichi, dell’inizio del XX secolo, di Adolf Loos a Vienna per la costruzione e la ristrutturazione di negozi, caffè, appartamenti e ville; questi lavori spogli, disadorni e semplici, in linea con il pensiero dell’architetto, acquistano interesse ed eleganza grazie a una geometria nitida, al sottile gioco di interconnessione degli spazi interni, alla modulazione dei livelli di pavimento e soffitto e all’uso di materiali ricchi per gli interni. Zannier fotografa il Kärntner Bar (American Bar) del 1908, la Sartoria Knize del 1910, e l’Immobile Goldman & Salatsch in Michaelerplatz del 1909, dove Loos adotta legni pregiati, marmo, specchi e metalli. Le fotografie per i progetti residenziali – a come la Villa Strasser e la Villa Scheu (1910 e 1912) – costituiscono una novità assoluta. In queste vedute d’interni, con le travi a vista del soffitto, gli arredi e i mobili incassati, egli coglie il significato ideologico dell’architettura di Loos e svela gli ambienti in una straordinaria sequenza di spazi.

Nel 1966 Zannier accetta con dedizione di affrontare un lavoro che lo impegna per diversi anni: l’iniziativa editoriale promossa dall’ENI, Coste e Monti d’Italia, i nove volumi pubblicati fuori commercio dove la fotografia rappresenta “un emblematico elemento di legame” tra archeologia, etnologia, botanica, sociologia, economia e urbanistica. “Le immagini visualizzano con chiarezza tutti gli aspetti salienti del territorio, filtrati da indicazioni specialistiche, fornite dai vari studiosi mediante precisi elenchi di soggetti, di varia scala e importanza, da fotografare e quindi da catalogare, spesso per la prima volta” . Questo studio ambientale e paesaggistico dell’Italia ha un’influenza fondamentale nello sviluppo dell’idea di fotografia per Zannier. Dopo questa importante esperienza egli formula una nuova concezione visiva:

“Attraversare lo spazio del paesaggio in automobile, lungo le coste e boschi, autostrade e paesi, con lo scopo della fotografia, significa dilatare e restringere continuamente lo sguardo, con salti di scala anche enormi, spesso al variare della velocità, quando sembra di essere immersi in un film interminabile, dentro il quale ogni tanto si preleva un fotogramma, che spero sia una sintesi significativa di tutto il resto: ma questa è la fotografia, ossia una scelta nel tempo e nello spazio, e nient’altro che ideologia, alla quale è comunque impossibile sottrarsi; la fotografia mostra chi siamo, soprattutto” .

Nel concludere questo breve saggio sulla figura di Italo Zannier fotografo, sperando che si possa continuare a studiare con particolare attenzione il suo archivio , tornano alla mente le parole che il fotografo Enrico Unterveger rivolge ai lettori di Rassegna Fotografica: “Pazienti indagatori, che spesso non conobbero profitto materiale per le loro fatiche, diedero il loro entusiasmo, studio e amore per il costante progresso della fotografia venuta a largire sommo beneficio e consolazione all’umanità. A questi indagatori vada la riconoscenza di quanti sono dotati d’intelletto e di cuore” . Zannier incarna perfettamente il mito della fotografia che si è ingigantito nel tempo, imponendo i suoi termini e la sua seduzione. Con le pagine meravigliosamente illustrate di questo volume ci auguriamo di contribuire non soltanto a una nuova riscoperta di un “(im)paziente indagatore”, ma anche di fornire l’occasione per meditare sull’opera di una delle personalità che continua a cogliere e a vivere le tensioni artistiche e intellettuali che hanno attraversato in profondità la cultura fotografica italiana.



Testo e immagini tratti dal comunicato stampa ufficiale.




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