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  SAndro  [21 Dicembre 2013 - 11:27] letto 684 volte
George Saunders è uno scrittore americano. Lo scorso maggio ha tenuto un discorso agli alunni appena laureati alla Syracuse University, nello stato di New York (dove insegna).
E' una riflessione sullo scopo della vita e come provare a essere migliori, di quelle che ci si aspetta da un bravo scrittore.

La traduzione è di Anna Bissanti, qui riporto un estratto dell'articolo pubblicato su Minima Et Moralia. Vi invito a leggerlo tutto.


<< Nel corso degli anni si è andata affermando una tradizione per questo tipo di discorsi, che potremmo sintetizzare come segue: un vecchio noioso e antiquato, con i migliori anni ormai alle spalle, che nel corso della sua vita ha commesso una serie di errori madornali (che sarei io), dà consigli dal profondo del cuore a un gruppo di giovani brillanti e pieni di energie che hanno davanti a sé i loro anni migliori (che sareste voi). E io intendo rispettare questa tradizione.

Ebbene, una delle cose più utili che si può fare con una persona anziana – oltre a prendere soldi in prestito o chiederle di eseguire uno dei “balli” dei suoi tempi, così da poterla osservare facendosi due risate – è chiederle: “Ripensando al passato, di che cosa ti rammarichi?”. E lei te lo dice. In qualche caso, come ben sapete, te lo dice anche se non glielo chiedi. In qualche altro caso ancora te lo dice perfino quando hai specificatamente chiesto che non te lo dica.

Bene: di che cosa mi rammarico? Di essere stato povero, di quando in quando? Non proprio. Di aver fatto mestieri tremendi, come “estrarre le articolazioni” in un mattatoio? (Che non vi venga assolutamente in mente di chiedermi che cosa ciò comporta.) No. Non mi rammarico di ciò. Di essermi tuffato senza nulla addosso in un fiume di Sumatra, un po’ alticcio, e di aver guardato in alto, e di aver visto qualcosa come trecento scimmie sedute su una tubatura intente a cagare di sotto, nel fiume, proprio quello nel quale stavo nuotando io, con la bocca spalancata e tutto nudo? E di essermi ammalato in seguito a ciò, e di essere stato male per i sette mesi successivi? Non proprio. Mi rammarico forse di aver fatto qualche sporadica figuraccia? Come quella volta che giocando a hockey di fronte a una gran folla – in mezzo alla quale c’era una ragazza che mi piaceva davvero tanto – caddi a terra emettendo un bizzarro suono stridulo, e non so come riuscii a segnare nella porta della mia squadra e al tempo stesso a scaraventare il bastone in mezzo alla folla e a colpire proprio quella ragazza? No. Non mi rammarico neppure di questo.

In verità mi rammarico di un’altra cosa: in seconda media nella nostra classe arrivò una ragazzina nuova. Nel rispetto della privacy, diciamo che il nome col quale ci fu presentata fu “Ellen”. Ellen era piccola, timida. Indossava occhiali blu dalla montatura a occhi di gatto, del tipo che all’epoca portavano soltanto le signore anziane. Quando era nervosa, in pratica quasi sempre, aveva l’abitudine di mettersi una ciocca di capelli in bocca e di masticarla.
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